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AMBIENTE

Il climate change devasta l’ex paradiso Madagascar

Dal 1986 a oggi il Paese ha attraversato 16 crisi alimentari. Ma quella del 2021 è la prima carestia in assoluto causata dal cambiamento climatico

Madagascar

Scritto dalla

Chiara Manetti

Tempo
di lettura

5 min

Data di pubblicazione

29 dicembre 2021

Le gocce di pioggia non toccano il terreno di Maroalopoty, un villaggio nel sud del Madagascar, ormai da quasi 4 anni. Un’eternità. La keré, letteralmente “mancanza di cibo”, come i malgasci chiamano la siccità tipica della regione, è tra le più lunghe mai viste negli ultimi quaranta anni. Dal 1986 ad oggi il Paese ha attraversato 16 crisi alimentari, ma secondo le Nazioni Unite questa del 2021 è la prima carestia in assoluto causata esplicitamente dal cambiamento climatico. E si verifica proprio in una nazione in cui circa il 90% dei suoi 25 milioni di abitanti vive già di suo in condizioni di povertà.

Vao, 27 anni, vive con i figli e il marito nella parte meridionale del Madagascar. Due dei suoi tre bambini sono gravemente malnutriti. Hanno 2 e 3 anni. L’Unicef, che ha condiviso la sua storia, aveva messo a disposizione una bilancia agganciata a una sacca in tessuto per pesare i più piccoli in un centro sanitario della zona: bene, quando Vao appende la fascia che avvolge il corpo scheletrico del figlio minore, la bilancia segna 7 chili. Una cifra di molto al di sotto di quella che dovrebbe mostrare. Una cifra drammatica.

Arduino Mangoni, professore e vicedirettore del World Food Programme in Madagascar, è reduce da un viaggio in un centro nutrizionale di emergenza nel sud del Paese e ha raccontato ai giornalisti dall’Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra: “Tra le varie zone dell’Africa in cui ho lavorato, dalla Repubblica Democratica del Congo al Darfur, non ho mai visto bambini in condizioni simili”. Il distretto più colpito è quello di Ambovombe-Androy, nella punta estrema meridionale dell’isola, dove i tassi di malnutrizione acuta hanno toccato il 27% della popolazione. In molti hanno iniziato a scavare nei letti dei fiumi ormai asciutti, alla ricerca delle falde acquifere sotto il terreno: un gesto estremo, provocato da una crisi climatica che porta siccità e tempeste di polvere acute, rendendo impossibile l’agricoltura. 

Un contadino sulla cinquantina di nome Votsora ha raccontato ad Amnesty International come, in un’unica giornata nel febbraio 2021, ben 10 persone siano morte di fame nel suo villaggio e come quello stesso giorno identica sorte sia toccata a 5 membri di un’unica famiglia in un altro paese. Poco distante, un altro testimone ha raccontato di aver perso 2 bambini piccoli, sempre nella stessa giornata: “Uno aveva 1 anno e 2 mesi, l’altro 8 mesi. Sono morti perché non mangiavano niente”. 

 

La keré non lascia scampo: i numeri della carestia malgascia

 

A maggio il WFP (il Programma alimentare Mondiale varato dalle Nazioni Unite) e la Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, hanno calcolato che più di 1 milione di persone in Madagascar soffrano di condizione alimentare ad alto rischio, e di queste quasi 14.000 vivano in uno stato direttamente “catastrofico”. Secondo la classificazione del WFP si tratta di una carestia di livello 5, il più alto mai registrato da quando la metodologia IPC – che misura gli stadi di insicurezza alimentare – è stata introdotta in Madagascar, nel 2016. Il 95% delle persone toccate dal fenomeno nel sud del Paese fa affidamento sull’agricoltura, l’allevamento e la pesca: ma il forte calo della piovosità provocato dal cambiamento climatico in atto ha portato a una grave riduzione della produzione di alimenti di base, tra cui riso e manioca. La siccità ha provocato la morte del bestiame, aggravando ulteriormente la carenza di mezzi di sussistenza, e le tempeste di sabbia inaspettate hanno sepolto i campi, minando ogni possibilità di lavorare la terra.

A luglio 2021 il WFP ha lanciato un programma di supporto per gli agricoltori dei distretti di Amboasary e Ambovombe, i più colpiti dell’isola. Ma non basta. Nel rapporto pubblicato da Amnesty a fine ottobre, intitolato “Sarà troppo tardi per aiutarci una volta morti”, l’associazione chiede che la comunità internazionale si impegni a fornire maggiori finanziamenti e aiuti umanitari prima che, come prevedono le attuali proiezioni sui cambiamenti climatici, la siccità si aggravi ancora, con danni ancora più drammatici. 

Il capo della sezione del WFP legata al clima e alla riduzione del rischio di catastrofi, Gernot Laganda, ha spiegato che “le risorse naturali come l’acqua pulita e la terra fertile stanno diventando scarse e la concorrenza sempre più feroce”. “Inoltre”, continua Laganda, “a causa dell’impatto della pandemia da Covid-19 sulla libertà di spostamento e sulle catene di approvvigionamento, gli africani non hanno più potuto emigrare”. Un’interazione tossica tra la crisi climatica, i conflitti e la fame. Ma a differenza di Etiopia, Sud Sudan e Yemen, dove una delle cause principali della carestia sono essenzialmente i conflitti in atto, il Madagascar è l’unico Paese in cui il fenomeno è provocato esclusivamente da fattori climatici devastanti.

 

Dipende tutto, ancora una volta, dalle emissioni di anidride carbonica

 

Per sopravvivere, le persone sono costrette a far bollire erbacce e cactus, tra le pochissime piante rimaste dopo la grave siccità. E lo fanno solo per sbarazzarsi della sensazione di fame, visto che si tratta di materie prime dall’apporto nutrizionale nullo. Una situazione assurda, in cui il colpevole ancora una volta sta soprattutto “a monte”. Amnesty International ha chiesto a tutti i leader mondiali di intraprendere azioni concrete per ridurre le emissioni di anidride carbonica (fra le principali colpevoli del cambiamento climatico) del 45% entro il 2030, per raggiungere lo zero prima del 2050. “Nel frattempo, i Paesi sviluppati hanno promesso di fornire, ancora dal 2009, 100 miliardi di dollari in finanziamenti per aiutare paesi colpiti dal cambiamento climatico come il Madagascar: ma la scorsa settimana l’obiettivo è stato nuovamente posticipato” ha sottolineato Baomiavotse Vahinala Raharinirina, ministro per l’ambiente e lo sviluppo sostenibile del Paese. 

Questo significa, per esempio, che in Madagascar non potranno permettersi di costruire un acquedotto per tentare di risollevare la situazione, alleviando le sofferenze attuali: il costo si aggira intorno ai 900 milioni di dollari, una spesa inaffrontabile per le (vuote) casse statali. “Perché è così difficile per i paesi ricchi pagare questi soldi? Non si tratta di aiuto, ma di responsabilità”, ha continuato Raharinirina. Il Madagascar contribuisce solo per lo 0,01% alle emissioni globali di anidride carbonica. Secondo Simon Evans, vicedirettore del sito web britannico specializzato in cambiamenti climatici Carbon Brief, Stati Uniti, Cina e Russia rappresentano invece da sole quasi il 40% delle emissioni di Co2 accumulate nell’atmosfera dal 1850 a oggi. Nel sud del Madagascar uomini, donne e bambini pagano con la propria vita per qualcosa che non hanno fatto: ma i veri responsabili di questa situazione pensano di avere la coscienza pulita, solo perché anche il loro dito è ora (finalmente) puntato contro gli effetti dei cambiamenti climatici. Ma non basta denunciare il problema e proporsi di risolverlo, anche se è un primo passo. I danni ci sono già. E vengono pagati da chi non ha colpe.